Francesco De Francesco si è formato all’interno della nostra Accademia e oggi presta la sua voce a uno degli attori più affermati a Hollywood: Jason Momoa, l’Acquaman della DC. Ma sono diversi i personaggi interpretati nella sua carriera da doppiatore professionista. Scopriamola in questa intervita.
D. Com’è nato in te il desiderio di diventare doppiatore?
R. Il desiderio di “giocare” a interpretare altro da me c’è sempre stato. Ho coltivato la passione per il teatro durante il liceo e poi, all’età di 19 anni, ho superato la prova d’ingresso alla Scuola d’arte drammatica Paolo Grassi di Milano. Avevo intenzione di trasformare questa propensione in un mestiere. All’epoca che la Grassi fosse la migliore scuola nazionale di formazione teatrale era di dominio pubblico. Dopo diversi anni di esperienze teatrali significative e di collaborazione con diversi registi molto attivi soprattutto nel circuito del teatro civile del nord e del centro Italia, ho avuto un problema a un ginocchio che mi ha costretto all’immobilità per diversi mesi. Per pure coincidenza proprio in quel periodo Christian Iansante e Roberto Pedicini avviavano la loro prima esperienza d’insegnamento su Pescara. Mi sembrò un modo intelligente di tenermi attivo e di curiosare in un mondo che ancora non conoscevo e che mi aveva sempre affascinato.
D. Racconta l’esperienza con l’Accademia del Doppiaggio e, se ti va, qualche aneddoto.
R. Ricordo in particolar modo il giorno in cui ci chiesero di raccontare un episodio intimo e doloroso della nostra vita. Eravamo in una fase preliminare al leggio. Io feci un collage di ricordi, molti erano esasperati per la mia scelta. Ricordo che piansi e non fui il solo. Roberto tirò fuori un paio di fazzoletti, uno me lo porse e uno lo usò lui. Mi ringraziò.
D. Com’è stato passare da Allievo a Docente?
R. Credo di avere una predisposizione naturale all’empatia, senza false modestie. Ho dovuto superare molte resistenze e molte difficoltà per raccogliere risultati. Il mio punto di vista rimane quello di colui che non smette di imparare mai. Forse è per questo che non mi è costato fare questo tipo di “salto”. E’ importante cercare di comunicare lo stato mentale in cui calarsi per dimenticare sé stessi al leggio. Va da sé che senza una consolidata base tecnica questo non si può fare.
D. Raccontaci la tua prima esperienza in sala di doppiaggio.
R. Credo tu ti riferisca alla mia prima incisione in una sala romana, dunque… assistevo a un turno con Claudia Razzi, i doppiatori in sala non sapevano ruttare a comando e timidamente dissi che avrei potuto dare una mano. Mi fece anche dire un “anch’io” in campo che era saltato. Ecco, quindi il mio primo turno: un “anch’io” e un rutto.
D. Quali sono state le prime difficoltà che hai incontrato e come le hai risolte?
R. Le prime difficoltà sono sempre di carattere relazionale. Bisogna bussare, chiedere gentilmente di essere ascoltati o di assistere ai turni. Era già molto complicato quando cominciai io, ora lo è diventato molto di più. Anche se la richiesta di prodotti da doppiare è in netta ascesa, pare che gli stabilimenti si serrino con forza sempre crescente. Negli ultimi anni c’è stato un gran numero di aspiranti che hanno cercato di “entrare”, nonostante gli ostacoli posti a monte dalle richieste di garanzia della privacy dei datori di lavoro. Ma ogni sistema chiuso ha feritoie da cui è possibile aprire un varco. Le difficoltà tecniche del lavoro in sé si risolvono col tempo e la pratica, ammesso che il talento venga in soccorso in caso di bisogno.
D. Quali sono le differenze nel doppiaggio di un film, di un documentario e di una pubblicità? Come si deve approcciare un doppiatore a questi tre tipi differenti di prodotto?
R. Più che di differenze di “prodotto”, parlerei di differenze di registri. Un film o una serie hanno bisogno di tutta la verità possibile, di solito. Ma anche un documentario, a volte. Ma, perché no, anche una pubblicità. Ormai i linguaggi e i suoni si sono miscelati molto con l’evolversi del gusto e del senso più o meno artistico del fare “cinema”. Più strumenti abbiamo nella nostra cassetta degli attrezzi, meglio è.
D. Ti sei mai immedesimato fin troppo in un tuo personaggio?
R. Mai. Questo non vuol dire che non ci si possa perdere nel momento presente in cui si sta girando l’angolo tra una battuta e l’altra, anzi, se succede, è un buon segno. Si può piangere veramente a sinc, mi è successo molte volte. Ma paradossalmente, in alcune di queste incisioni cariche di emotività, ho dovuto dosare il suono per aderenza al personaggio. Quindi è bene immedesimarsi, ma ancora meglio “incollarsi”.
D. Ti è mai capitato di doppiare, in uno stesso giorno, personaggi molto diversi tra di loro (magari un buono da una parte e un assassino dall’altra)? È difficile o le tue emozioni restano confinate in quel preciso momento?
R. Mi capita sempre. E’ forse la parte più divertente del mestiere. Qualche strascico ce lo possiamo anche portare dietro, ma spesso si recupera la carreggiata in pochi secondi. Non dimentichiamoci mai che il doppiaggio si fà sempre con tempi stretti. Ci si abitua alla rapidità d’esecuzione, ma solo col tempo.
D. Rivedi i film che doppi? Se sì, che emozioni provi quando sei nella sala di un cinema, consapevole che tutti gli altri non sanno di essere seduti vicini alla voce che stanno ascoltando?
R. Si, risento volentieri il mio lavoro a differenza di molti colleghi. Sicuramente per una dose, spero non patologica, di narcisismo che molti di quelli che non si ascoltano non ammetterebbero mai. Al di là delle battute caustiche, penso che risentire, non tutto, ma qualcosa, sia parte del mestiere. Sono molto critico con me stesso. Alcune cose mi piacciono, altre no. Di quello che pensa la gente mi interessa il giusto, quindi non molto. Quando qualcuno mi cerca per dirmi che la mia “traduzione” italiana di un personaggio ha comunicato qualcosa, ovviamente mi fa molto piacere.
D. Qual è il personaggio che ti è più piaciuto interpretare? E quale attrice vorresti doppiare in futuro?
R. Ce ne sono stati talmente tanti che non saprei da dove partire. E non saprei dirti neanche quale attore sarebbe bello doppiare, anche li c’è l’imbarazzo della scelta. Joaquin Phoenix, Sam Rockwell e Mark Ruffalo sono sicuramente dei grandissimi. Poi c’è Sean Penn, un gigante. Ma sono già stati doppiati da eccellenti colleghi, pare.
D. Cosa ti piace di più del mondo del doppiaggio e cosa cambieresti?
R. E’ un gioco, a me piace giocare. Mi piace la possibilità di fare cose diverse nell’arco di una giornata di lavoro. Mi piace la sfida. Quello che cambierei è il tempo a disposizione, con più tempo si potrebbe fare un lavoro migliore. Magari si otterrebbero risultati buoni rapidamente, ma senza il peso di una consegna imminente.