La storia di Francesco Cavuoto è di quelle da raccontare: non solo da Allievo a doppiatore professionista, ma anche da Allievo a Docente. Oggi, infatti, Cavuoto è uno degli insegnanti della nostra Accademia dopo essersi formato proprio con i nostri corsi. E la sua storia ce la racconta proprio lui in questa intervista.
D. Com’è nato in te il desiderio di diventare doppiatore?
R. È arrivato in modo fisiologico. Faccio radio da quando ho 14 anni e sono stato sempre affascinato dalla forza comunicativa ed espressiva di una voce, che altro non è che l’anima dell’attore che la fa vibrare. Credevo che il doppiaggio fosse un lavoro di voce, mito diffuso ed errato. Solo facendolo, il doppiaggio, ho capito che non si doppia una bocca bensì gli occhi; sono quelli a cui mi aggrappo quando do voce ad un personaggio. Sono arrivato al doppiaggio credendo che una buona dizione, un discreto utilizzo della voce al microfono, una tecnica ferrea bastassero a farmi entrare dal portone principale… solo quando ho iniziato a mettere il cuore, qualcosa è scattato.
D. Racconta l’esperienza con l’Accademia del Doppiaggio e, se ti va, qualche aneddoto.
R. Erano i primi giorni di luglio 2003, lavoravo per una grossa radio del centro Italia, nei corridoi della radio sento due colleghi che parlano di un provino per un’accademia di doppiaggio a Pescara con Pedicini e Iansante. Fanno riferimento ad un articolo su un giornale, una pubblicità, che invita aspiranti attori a provarci, a mettersi in gioco. Io quell’articolo di giornale l’ho ritagliato e “rubato”. Il resto è facilmente intuibile.
D. Com’è stato passare da Allievo a Docente?
R. È stato Christian a credere in me, ad offrirmi la possibilità di mettere la mia passione e la mia esperienza al servizio dei ragazzi. Ho fatto un corso di tecniche di formazione di 3 anni e 2 anni di Estill Voicecraft, studio approfondito dell’apparato fonatorio e di tecniche vocali; in realtà li ho fatti per conoscenza personale: il mio motto è “ Migliorati. Adesso”, ma queste esperienze mi tornano utili nella formazione. Ho tanto da imparare anch’io e continuerò a farlo, quando mi sentirò arrivato sarà la volta buona che smetterò e aprirò un chiringuito. Con i ragazzi sono molto esigente e non lascio nulla al caso, mi dono completamente, ma pretendo che loro facciano lo stesso, senza paura e senza giudizio, eliminando tutte quelle zavorre che non ci permettono di brillare. Credo molto in una formazione seria, i ragazzi sono il futuro. Senza cambio generazionale, non ci sarà futuro.
D. Raccontaci la tua prima esperienza in sala di doppiaggio.
R. Ero emozionatissimo, e molto acerbo! Ricordo solo che mi tremavano le gambe. Ho avuto, non so se chiamarla fortuna o sfortuna, la possibilità di fare il mio primo turno doppiando un piccolo personaggio. Accanto a me, al leggio, c’erano colleghi che facevano questo lavoro da almeno 20 anni… immaginate la responsabilità di fare bene per non sbagliare, per non bloccare il turno, per non deludere le aspettative dei colleghi e del direttore. Per essere bravo come loro. Impossibile. Un disastro. A distanza di anni ho capito che l’ansia da prestazione è nemica di una buona performance. Concentrarsi, isolarsi, fregarsene del giudizio, permettere alle emozione di fluire, queste sono le cose che devono accadere se vogliamo fare un buon lavoro.
D. Quali sono state le prime difficoltà che hai incontrato e come le hai risolte?
R. Le mie difficoltà sono sparite quando ho iniziato a non pensare al sync. Il sync è come il miraggio nel deserto… alla fine non c’è nulla! Mi spiego meglio: ovvio che per doppiare bisogna andare a sync, ma non deve essere la nostra principale preoccupazione. Il rischio, pensando solo al sync, è quello di diventare delle macchine parlanti, tecnicamente perfette, ma vuote; delle ottime voci per il casello autostradale o per le uscite della metropolitana. Quello che vi fa ridere, arrabbiare, emozionare quando guardate un film doppiato bene, non sarà il sync, ma la capacità del doppiatore di saper cogliere attraverso il proprio vissuto, tutte le sfumature che l’attore ha messo in scena. Incollarsi agli occhi, mettersi a nudo, mettersi al servizio. Respirando con l’attore, il sync arriverà da solo. Effetto non causa di una buona recitazione.
D. Quali sono le differenze nel doppiaggio di un film, di un documentario e di una pubblicità? Come si deve approcciare un doppiatore a questi tre tipi differenti di prodotto?
R. Sono cose molto diverse tra loro, prodotti che mi diverto a interpretare. La pubblicità, ad esempio, è molto tecnica, è la capacità in 30 secondi di “far arrivare” il prodotto attraverso mille cambi di intenzioni, di colori, col sorriso, senza incepparsi. Ci sono delle chiavi interpretative molto diverse tra loro. Difficile da sintetizzare, ma ci provo. Film: cuore; Documentario: velocità e concentrazione; Pubblicità: tecnica e voce. Di base per potersi cimentare in tutti i prodotti, si deve avere la voglia di differenziare, diversificare, sperimentare, rubare dai grandi. L’ascolto è la dote fondamentale.
D. Ti sei mai immedesimato fin troppo in un tuo personaggio?
R. Quando sono in sala sempre. Non c’è altro modo di doppiare, a mio avviso. Ti devi sentire il personaggio che doppi, completamente. Abbiamo imparato però a lasciare il personaggio in sala, alla fine del turno. Sono convinto che a livello profondo qualcosa rimanga, perché a differenza di un semplice spettatore, noi l’emozione dobbiamo provarla, sentirla, altrimenti non ti incolli, ma finito il turno, le emozioni restano attaccate al leggio, almeno spero.
D. Ti è mai capitato di doppiare, in uno stesso giorno, personaggi molto diversi tra di loro (magari un buono da una parte e un’assassino dall’altra)? È difficile o le tue emozioni restano confinate in quel preciso momento?
R. Capita tutti i giorni, ecco perché non impariamo nulla a memoria e non studiamo il copione prima. Spesso quando arriviamo al turno non sappiamo cosa andremo a fare e questo per me è magico. Sono grato a tutti i miei colleghi, ogni volta che li vedo al leggio avviene la magia di trasformarsi in mille personaggi diversi. Non so se come dicono i più siamo i migliori del mondo, ma di sicuro in Italia il doppiaggio rappresenta ancora un’eccellenza.
D. Rivedi i film che doppi? Se sì, che emozioni provi quando sei nella sala di un cinema, consapevole che tutti gli altri non sanno di essere seduti vicini alla voce che stanno ascoltando?
R. Per una volta puoi sentirti invisibile, un po’ come assistere al tuo funerale! Quello secondo me è la critica più sincera. Lì capisci se hai fatto davvero un buon lavoro. Si spengono le luci e incrocio le dita.
D. Qual è il personaggio che ti è più piaciuto interpretare? E quale attore vorresti doppiare in futuro?
R. Ho amato Murray Bauman di Stranger Things (Brett Gelman), credo sia davvero bravo e poi ha mille cambi repentini di colori ed intenzioni; copre dai suoni bassissimi alle frequenze dei delfini… e se si tratta di giocare io non mi tiro mai indietro. Amo i caratteri, quelli che non hanno paura di osare. Mi piacerebbe doppiare qualsiasi attore che mi faccia sudare e divertire.
D. Cosa ti piace di più del mondo del doppiaggio e cosa cambieresti?
R. Del doppiaggio mi piace la meritocrazia. Se non sei capace non ci saranno raccomandazioni che ti faranno arrivare ai grossi ruoli. Se non sei bravo, si sente! Si dice che sia una casta, in realtà lo dicono due categorie di persone: quelli che non sanno nemmeno cosa sia il doppiaggio e quelli che ci hanno provato, ma non erano preparati o tenaci abbastanza da rimanerci. Non è una realtà che accoglie, sia chiaro, ma non ha mai chiuso le porte in faccia all’educazione, preparazione, tenacia e al talento. Del doppiaggio cambierei i tempi frenetici delle consegne: a volte, se si avesse più tempo per realizzare un prodotto, la qualità ne gioverebbe.